Baudrillard ha sviluppato recentemente il tema dell’implosione, affrontato solo nelle ultime pagine di “Dimenticare Foucault”, anche se presente in tutto il sottotesto, nel suo ultimo libro “L’effet Beaubourg - dissuasion”, edito da Galilée, dove l’esegesi delle “chose Beaubourg” fa da tramite al processo di implosione applicato al sociale. Il Beaubourg “carcassa di flussi e di segni, di ramificazioni e di circuiti” è, dice Baudrillard, “una busta architetturale che contiene il vuoto, un buco nero divoratore d’energia culturale. Lì tutto è in coma avanzato, ciò che vuole essere animazione è solo rianimazione, e questo perché la cultura è morta e il Beaubourg è solo un monumento o un anti-monumento trionfalmente innalzato di questa morte, equivalente all’inanità fallica della Tour Eiffel dei suoi tempi”. JB_disgregare.jpg Il contenente annienta a priori il contenuto, la sola vera pratica culturale che ne resta esclusa proprio perché non può esservi compresa è “una pratica manipolatoria, aleatoria, labirintica dei segni”. Ma non bisogna per questo denunciare il Beaubourg come una mistificazione culturale di massa; “le masse - dice Baudrillard -, vi si precipitano per gioire di questa messa a morte, di questa prostituzione operazionale di una cultura ormai definitivamente liquidata, ivi compresa la controcultura che di quella è l’apoteosi. Meglio ancora, le masse ‘sono’ la messa a morte del Beaubourg: il loro numero, il loro camminare, il loro prurito di vedere tutto e manipolare tutto, la loro adesione, la loro curiosità annulla i contenuti stessi di questa cultura. È dunque la massa che fa l’ufficio di agente catastrofico in questa struttura di catastrofe, ‘è la massa stessa che mette fine alla cultura di massa’”. La massa è quindi l’unico vero contenuto del Beaubourg che, “macchina per produrre cultura, produce invece ‘della massa’ che, invece di assorbire cultura, piega, incrina, assorbe la macchina”. Baudrillard urla a lettere maiuscole: “Fate piegare il Beaubourg! Inutile incendiarlo, inutile contestarlo, andateci! È il modo migliore per distruggerlo”. Il Beaubourg non può bruciare, scoppiare, esplodere, tutto è previsto contro questi pericoli. Così le istituzioni, lo stato, il potere. Il sogno di vedere tutto ciò esplodere a forza di contraddizioni non è giustamente nient’altro che un sogno. Ciò che succede veramente è che le istituzioni implodono da sole, a forza di ramificazioni, di feed-back, di circuiti di controllo ipersviluppati. “Il potere implode”, è il suo modo attuale di dissolvimento. Ma bisogna guardarsi dal prendere l’implosione come un processo negativo, inerte, repressivo, come c’impone la lingua esaltando i termini inversi di evoluzione e “rivoluzione”. “Non bisogna insomma, - come ci diceva Baudrillard durante l’intervista - attaccarsi troppo al termine stesso di implosione, atrofizzandolo, ma vedere nell’applicazione del processo di implosione al potere l’unica possibilità di distruggerlo, non con esplosioni violente, ma vedendolo disgregarsi con le sue stesse forze”. “Nel ‘68 c’era ancora molta di quella dinamica rivoluzionaria, di quella violenza esplosiva, ma altre cose sono cominciate allora: l’involuzione violenta del sociale e l’implosione susseguente e immediata del potere, e questo è ciò che continua a esistere, non una qualche dinamica rivoluzionaria introvabile, visto che la rivoluzione, l’idea stessa della rivoluzione è implosa”. “Qualcosa di estremamente interessante in questo senso è accaduta in Italia, dove nell’azione degli studenti, degli ‘indiani metropolitani’, delle radio libere l’effetto di sovversione è stato fatto in senso opposto, verso l’interno. Sovversione dell’universalità attraverso un’azione in sfera limitata, circoscritta, molto concentrata, molto densa, ‘che si esaurisce nella propria rivoluzione’. Si sono creati così punti multipli d’implosione piuttosto che focolai di diffusione, che il sistema ha dovuto reprimere non per il loro contenuto politico, ma come localizzazioni pericolose, non estendibili, non esplosive, non generalizzabili, che attingono la loro singolarità e la loro violenza proprio dal loro rifiuto di avere un sistema di espansione”.

Articolo pubblicato nel numero 3 di “Tra” (gennaio-febbraio 1978)


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