D. Dici che il discorso di Foucault è un discorso di potere perché “riflette i poteri che descrive”. Pensi che ogni analisi del potere sia destinata a divenire solamente un riflettersi di quest' ultimo?

R. No, io penso che attraverso un’analisi il potere si definisce come una specie di struttura di centralità, e se l’analisi è talmente centrata, oggettivata, convergente, non sarà omologa al potere che descrive. E a questo proposito l’analisi di Foucault è, a volte in effetti, splendida e sospetta, perché riproduce questa specie di scenario del potere, e lo riproduce in un discorso attraverso una “sintassi” corposa e positiva, che riempie tutti gli spazi, così da poter essere applicata anche nel “sociale”. Ma io penso che si debba avere la facoltà che, un’analisi della possibilità di spezzare quella convergenza, possa eludere l’operazione del potere all’interno del discorso. Allora a questo punto si ha bisogno di un testo che, come dice Bellasi nell’introduzione, sia anagrammato, vale a dire non frontale, non oggettivo, ma dove il senso passi in un altro modo e, al limite, possa essere la formula del testo; non la si troverà mai, non sarà dunque mai il potere, ma vale a dire che il potere vi è “decostituito” parallelamente allo svolgersi del testo dall’organizzazione e disorganizzazione del testo stesso. Questo testo non gira come una macchina centralizzata, ma il suo andare aJBaudrillard.jpgspirali può fargli fare solo dei movimenti, e quando non ci sarà più niente solo una specie di anagramma del senso, che è anche un anagramma del potere, perché il senso è sempre una produzione del potere. Io coltivo però la speranza che ci siano anche testi non di potere, vale a dire che si possa produrre oggi una teoria di un terreno “altro” nel quale il soggetto della teoria sia “a priori” rispetto al potere. In effetti è sempre fragile la “decostruzione” che si può operare su una materia teorica; ma io penso che, se si prende come obiettivo non l’illustrare dei concetti, con il metterli a posto, non il costruire un edificio concettuale, una architettura ben organizzata, come fa Foucault, tanto per dirne uno, sia possibile al contrario mettere in gioco dei concetti per “decostruirli”. Ma lo scopo di questi concetti, l’arte di questi concetti, diventa reversibile, vale a dire che le parole si distruggono da sole, o si autoannullano, come in fondo io faccio da tempo con i concetti di bisogno, di economia politica e anche con l’arte dei concetti di potere. Quindi assolutamente non costruire un edificio di concetti, ma al contrario spingere la logica dei concetti fino a un’iperlogica dove il concetto si definisce. Si tratta quindi di un lavoro che sia prima di reversione teorica, poi di “decostruzione”.

D. Dici, citando Apollinaire (“...parlo del tempo perché esso non esiste più”), che Foucault parla del potere, e così bene, perché il potere non esiste più; parli di un “probabile dissolversi del potere in una forma - però - che non riusciamo a comprendere”. Cosa indichi come segni di questa dissoluzione del potere?

R. Io credo che ci sono molte probabilità che dissoluzioni di quel tipo restino largamente invisibili, cioè che non ci forniranno mai le prove dell’esistenza del potere attraverso una sua visione o una sua dimostrazione; e quando un grande sistema di questo genere si distrugge si ha la possibilità che le prove cadano in una specie di incoscienza o di residuato. Ma io penso che possa essere più evidente riconoscere un certo tipo di disaffezione che tocca la sfera politica e tutti i sistemi di rappresentazione, o tutte le istituzioni che fanno parte di questo sistema rappresentativo. Vale a dire che là il potere nella sua organizzazione classica come sistema di rappresentazione, con un “rappresentante”, dei “rappresentatori”, un “significante” e dei “grandi significati politici” che vi sono alla base, ebbene questa macchina oggi non trasmette più; vale a dire che là la sfera politica pare proprio essersi liberata, pare che continui a esistere per simulazione, ma pare anche che la sostanza politica, una specie di energia di volontà politica, si sia ristretta, rappezzata sempre più, e si arriva all’evidenza, vissuta da tutti, che le ambiguità del gioco politico si sviluppano altrove, cioè non più nel politico, nell’interno del sistema rappresentativo. Credo che tutto ciò sia, se non già una prima prova, almeno un sintomo abbastanza grave; mi sembra che tutte le istituzioni (la giustizia, la scuola, la stessa economia) vacillino in questo sistema di incatenamento rappresentativo delle istituzioni come dei concetti. E si avrà sempre una difficoltà maggiore perché questa perdita, questo deperimento del politico, si accompagna sempre a una specie di recrudescenza, a una sovramoltiplicazione dei segni politici, vale a dire che ciò che a mio avviso fa paura a tutti, questa agonia della politica e del potere, angoscia tutti, credo, e fa riprodurre tutto ciò artificialmente sotto forma di simulazione. È soprattutto questo che forma la spirale della simulazione.

D. Lo stesso discorso, è valido per la sessualità? Voglio dire, quali sono i segni della scomparsa della sessualità come produzione della nostra cultura?

R. La sessualità è, attraverso i suoi segni, una funzione del piacere e del desiderio; queste funzioni costituiscono una specie di struttura differenziale di maschile e femminile. Oggi c’è la possibilità che queste strutture comincino a vacillare per riflesso dell’oscillazione stessa del ruolo maschile e femminile, attraverso la “ridefinizione” della sessualità e del ruolo sessuale, che tocca anche la definizione del politico. Ed è in questo modo che la sessualità viene minata profondamente da se stessa. Partendo da ciò che afferma Foucault, in questo modo si può dire che la sessualità, così come la conoscenza, sia un sistema prodotto e costruito di pari passo alla nostra cultura, e che anche questo sistema si decomponga, perda la legittimità che assegna a ciascuno il suo sesso e i suoi organi sessuali. Anche là si deve operare una reversione, una reversibilità di poli nella struttura, che faccia sì che anche là si arrivi a una organizzazione di rappresentazione, al sesso diverso, alla differenza dei sessi

D. Nel libro introduci un concetto a nostro avviso molto interessante, quello del “potere iperrealizzato nella simulazione”. Puoi spiegarlo meglio?

R. L’iperrealtà è un concetto che mi ha interessato perché è diverso da quello di reale, di realtà, senza per questo coincidere con l’immaginario. Per iper-realizzato intendo tutto ciò che fornisce i segni della realtà, che addirittura è più reale del reale, ma che da questo prende le distanze, nel senso che tutto ciò che vediamo è segno di una realtà che ha perso i suoi referenti… Non esistendo più gli oggetti si arriva a una perdita di rappresentazione, che si traduce in una iperrappresentazione. Questo in fondo è il concetto di iperrealismo, che si identifica con quello di simulazione. Iperrealtà e simulazione per me fanno parte dello stesso processo, processo che si trasposta in altri campi, come i mass media, la politica ecc... Si capisce così finalmente che le cose non sono mai rappresentate, consumate, ricevute al “primo livello”, vale a dire con dei “segni che condurrebbero al reale”, segni che in effetti vogliono dire qualcosa; ma le crisi sono sempre crisi del “secondo livello”, dove i segni funzionano “tous seuls”, senza risvegliare affatto una realtà o un principio di realtà. Mi sembra che sia così che funzionino sempre più le sfere di potere, le sfere sessuali, tutte le sfere della conservazione, e forse anche il campo stesso della produzione... Mi sembra che tutto passi per questa stessa spirale dell’iperrealtà, cioè: noi agiamo, tutti agiscono come se si producesse sempre di più, come se tutto producesse conoscenza, ma in fondo si tratta di una specie di finalità senza fine, finché non sfocia in una specie di iper-spazio...

D. E per quanto riguarda la parodia? Tu la definisci come “un’esasperazione dell’organizzazione dei segni che minacciano il potere”...

R. Sì, esatto. In effetti la parodia dei segni si traduce nell’idea che per combattere questo stadio nuovo dei segni del sistema non bisogna tentare di “restituire il reale”, ritornare indietro, ma bisogna battersi sulla base dell’iperrealtà, sulla base della simulazione, attraverso una sorta di ipersimulazione, vale a dire andare ancora più lontani in questo gioco, in questa manipolazione, andare ancora più lontani del “nuovo sistema”. Bisogna spingere la “langue”, la logica, fino al raggiungimento di una parodia, esacerbare finalmente i segni di questa simulazione, e intrappolare il sistema stesso nella sua propria simulazione. Io non credo che si tratti di una nuova politica, o di una nuova strategia storica, ma è certo che sia piuttosto un nuovo strumento di movimento, del movimento italiano...

R. Sì, l’ironia è la sola possibilità in un sistema che sembra assorbire tutto, a differenza di tutte le strategie frontali, la sola che funzioni in un gioco di simulazione. Ma questa azione, questa strategia, non significa fare una battaglia senza obiettivi per un’alternativa al sistema, ma piuttosto uno spingere alla catastrofe il movimento attraverso il suo processo. E questo non è un nuovo ruolo dell’ironia nella parodia, è una prospettiva omicida perché non si attacca a una realtà complessiva, ma la riduce a uno specchio in cui si coglie un processo di reversione.


Intervista di  Beppe Sebaste e Gigi Mansani, pubblicata nel numero 3 di “Tra”
(gennaio-febbraio 1978)


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