Dapprima: due colonne. Tagliate, dall’alto e dal basso, tagliate anche nel loro fianco: incisi, tatuaggi, incrostazioni. Una prima lettura può fare come se i due testi, posti l’uno contro l’altro o l’uno senza l’altro, non comunicassero fra loro. È in un certo modo deliberato ciò resta vero, quanto al pretesto, all’oggetto, alla lingua, allo stile, al ritmo, alla legge. Una dialettica da una parte, una galattica dall’altra, eterogenee e tuttavia indiscernibili nei loro effetti, a volte fino all’allucinazione. Fra i due il battente d’un altro testo, si direbbe di un’altra “Iogica”: ai nomi “di obséquence”, “ce penétre”, “ce stricture”, “de serrure”, “d’anthérection”, “ce mors” ecc. Per colui che guarda alla firma, al corpus e al proprio, dichiariamo che mettendo in gioco, in pezzi, piuttosto, il mio nome, il mio corpo e la mia scrittura io elaboro nello stesso tempo, in ogni lettera, quelli del denominato Hegel in una colonna, quelli del denominato Genet nell’altra. Si vedrà perché, caso e necessità, questi due. La cosa, dunque, si eleva, si espone, si distacca secondo due giri, e l’accelerazione incessante di un volta a volta. Nella loro doppia solitudine, i colossi scambiano un’infinità di ammiccamenti, per esempio d’occhio, si doppiano a gara, si penetrano, si attaccano e si staccano, passando l’uno nell’altro. Ogni colonna figura qui un colosso (“colossus”), nome dato al doppio del morto, al sostituto della sua erezione. Più di uno, prima di tutto.
La scrittura colossale elude completamente in altro modo i calcoli del lutto. Essa sorprende e “derimbomba” l’economia della morte in ogni suo risentimento. Glas in decomposizione (suo o sua) doppia striscia, striscia contro striscia, è prima l’analisi della parola glas nelle virtualità ritorte e soppresse del suo “senso”, (suonata a distesa di tutte le campane, la sepoltura, la pompa funebre, il lascito, il testamento, il contratto, la firma, il cognome, il nome, il soprannome, la classificazione e la lotta delle classi, il lavoro del lutto nei rapporti di produzione, il feticismo, il travestimento, la toilette del morto, l’incorporazione, l’introiezione del cadavere, l’idealizzazione, la sublimazione, il cambio, la reiezione, il resto ecc.) e del suo “significante” (furto e deportazione di tutte le forme sonore e grafiche, musicali e ritmiche, coreografia di Glas nelle sue lettere e nelle sue fondazioni poliglottiche). Ma questa opposizione (Se/Sa) come tutte le opposizioni del resto, la sessuale in particolare, per caso regolare si compromette, ogni termine diviso in due, agglutinandosi all’altro. Un effetto di gl (colle, giu, crachat, sperme, chréme, onguent, etc.) (colla, vischio, sputo, sperma, crema, unguento, ecc.) forma il conglomerato senza identità di questo cerimoniale. Esso elude la mimesi e l’arbitrarietà della firma in un accoppiamento scatenato (toc/seing/lat), ubriaco come un suonatore appeso alla sua corda. Che cosa resta del sapere assoluto? Della storia, della filosofia, dell’economia politica, della psicanalisi, della semiotica, della linguistica, della poetica? Del lavoro, della lingua, della sessualità, della famiglia, della religione, dello stato ecc.? Che cosa resta, da esporre, del resto? Perché queste questioni sotto forma di colossi e di fiori fallici? Perché esaltare nella thanatopraxi? Di che cosa godere a celebrare, io, qui, ora, a quest’ora, il battesimo o la circoncisione, il matrimonio o la morte, del padre e della madre, quello di Hegel, quella di Genet? Resta da sapere ciò che non si è potuto pensare: il dettagliato di un colpo.
Testo di Jaques Derrida (traduzione Beppe Sebaste),
pubblicato nel numero 4-5 di “Tra”
(marzo-maggio 1978)