Ciò che interessa Derrida, nel rapporto complesso che intrattiene con la filosofia, è di “rigettarla”, come lui stesso dice, di vomitarla. Vomitare la filosofia, essa che sempre ha dominato, restituirla nel suo campo generale, non solo, ma confrontarla con la finzione (“fiction”). Decapitarla, come scrive Catherine Clément (l’Arc), è togliergli la rappresentazione del suo privilegio capitale. Glas, rintocco funebre, “glas della filosofia”? Questo è un aspetto, la critica del logocentrismo, del fallogocentrismo, che è critica dell’idea stessa dell’Occidente, in quanto “l’Occidente ha dovuto rappresentare una sorta di solidificazione e di coerenza massimi di prevalenza del Logos sulla scrittura”. Quindi la pratica della “scrittura”, della decostruzione, e la nascita di un nuovo concetto che influenzerà tutto il lavoro di vari anni del gruppo Tel Quel e tutto il poststrutturalismo: la differenza, la différance. Presentiamo un testo, un estratto, le prime tre pagine (facciate) di “Glas”, opera mastodontica, difficile, “intraducibile”. Si ha l’impressione, subitanea, di un totale sgretolamento, di una decomposizione,membra disiecta, di qualsiasi possibile unità di linguaggio; “ma Derrida sembra prendere un grande piacere - che non nasconde - alla costituzione di un nuovo ‘corpus’ che libera e abbandona pezzi del corpo testuale che erano celati”. Dice Derrida: “Quando si crede di distruggere, quando si pensa di decostruire dalla parte più selvaggia, si sta già ricomponendo un nuovo ‘corpus’, delle nuove unità che bisognerà ancora demolire...” Questo quindi suppone un’attenzione tale all’elemento della lingua da renderlo “intraducibile”. “La violenza che Derrida fa alla lingua francese - come la parola ‘différence’ - non si lascia cancellare dalla traduzione”, però, il gioco dei significanti vi è irriducibile. Ha dunque senso tradurlo? Ha senso tradurre Joyce? Penso con estrema sincerità che Derrida sia il “pensatore”, lo “scrittore” (cosa, poi?) più geniale di questi anni, anche considerando la scarsità di dibattito culturale che è stato fatto “su” di lui, anche in Francia, per non parlare dell’Italia. Ho detto prima “pensatore” e poi “scrittore”: come scrive nella lucida introduzione a “Posizioni” Giuseppe Sertoli: “La ‘tesi’ dell’incrocio tra filosofia e letteratura non può restare una tesi ma deve diventare, necessariamente, una pratica: pratica di una scrittura ‘letteraria’ che moltiplica la riflessione filosofica, lavoro sui significanti che moltiplica (e in un certo senso disgrega) l’elaborazione dei concetti”. I testi di Derrida, “Glas” in particolare, uno degli stadi finali della frantumazione concettuale e del passaggio, con l’“azione” della différence, ai “giochi di parole”, diventano un discorso aperto, pieno di smagliature, di significanti, i cui spazi, e i cui “blancs” richiamano Mallarmé: “L’atto di scrivere è giunto fino a scrutarsi nella propria origine”.

Articolo  pubblicato nel numero 4-5 di “Tra” (marzo-maggio 1978)