Ogni droga è caratterizzata/accompagnata da una sua mitologia di strumento per l’illuminazione: ogni droga, in sostanza, promette un’avventura che può portare alla completa autocoscienza di sé come individuo, all’esperienza di sé come macchina biologica, alla verifica di sé come unità riassuntiva di tutti i migliori ritrovati filogenetici, alla esplorazione dei proprio cervello come terminale dell’inconscio collettivo, e così via. Questi miti hanno basi scientifiche solide, giustificazioni religiose antiche di millenni e credito letterario illimitato. star.jpg La storia dei rapporti tra droghe e creatività è lunga, tortuosa e millenaria. Ma prima dell’uso avventuroso delle droghe, ha rilevanza storica il loro uso per questioni di mercato. Il desiderio di migliorare il processo creativo e di sistematizzare/autogestire lo stato di ispirazione, è giustificato dalla delega sociale che connota il “fare arte”: l’artista è un delegato alla produzione dei piacere estetico, all’invenzione di interpretazioni metaforiche, alla produzione di visioni, alla stimolazione delle emozioni, all’invenzione dei sentimenti, Con tale grado di libertà ideativa/esecutiva è pensabile un’altrettanto ampia licenza sul piano tecnico: nessun limite al tipo e alla intensità degli stimoli atti a indurre le “trances” creative. È sostanzialmente una posizione piccolo borghese ancorata al commercio dell’arte e alla mercificazione del prodotto dell’artista: l’interazione tra sostanza e consumatore deve restare contenuta nei limiti di un aumento dei processi di percezione e a una accelerazione dei processi interpretativi. Il consumatore deve poter mantenere un controllo critico sui contenuti  mentali indotti dalla droga durante e dopo (memorizzati) il suo uso.Poichè lo stato di ispirazione è uno stato di passività, specie quando è vissuto come possessione, è tollerato il passivizzarsi a una sostanza chimica, purchè venga mantenuto  un sufficiente controllo sugli effetti. Il limite può essere valicato per scopi autoanalitici e/o esplorativi e/o conoscitivi e/o avventurosi, ma già ai primi tentativi è chiaro che la perdíta di controllo sui contenuti intride l’esperienza di accadimenti e di significati diversi da quelli utili a fini commerciali. Al piccolo borghese conviene allora ridurre la potenza dello stimolo e navigare di piccolo cabotaggio tra acque calde e blande tisane psichedeliche: Victor Hugo esce dal Club des Hashisciens. Tanta propensione all’avventura fa nascere un tipo di interazione tra droga e consumatore che si discosta notevolmente dal mito dell’“expander mind”: il consumatore tende a sistematizzare il suo rapporto con la sostanza per poter riconoscere i fenomeni dagli artefatti della stimolazione e per poter avere dalle droghe ciò che i loro consumatori autorizzati (i popoli che le hanno istituzionalizzate nelle rispettive culture) dicono possible. Ogni cosiddetta droga, eccettuati l’alcool, il caffè, il tabacco, la Coca-Cola e la televisione, è estranea alla cultura occidentale e, d’altra parte, per godere dei veri effetti di una droga occorre consumarla a lungo. Occorrono manuali di viaggio basati sul Bardo Thódol. E Timoty ne scrive uno. Questo mito produce solo identificazioni sensitive. Poichè ogni droga stimola preferenzialmente uno dei sensi, (si fa attivare in genere quello che caratterizza la psiche del consumatore) ciascuno può scoprirsi un tattile, un uditivo o un visionario. Poiché ogni droga stimola preferenzialmente un sistema sensitivo invece che un altro, l’uso dei funghi messicani, che stimolano principalmente il sistema visivo, gode grande popolarità nella nostra cultura, principalmente visiva, ed è la sostanza preferita dai pittori. L’oppio, che attiva il meccanismo della produzione onirica, gode il favore dei letterati. La marijuana che accelera l’ideazione, piace agli uditivi. E così via. Occorrerebbero manuali di autogestione degli stati di coscienza e si scoprirebbe che l’estasi chimica è una scorciatoia tecnologica verso l’incontro con sé stessi (magari olfattivi) e l’autoidentificazione con la divinità. Sembra raggiunto l’obiettivo massimo dell’avventura: la modificazione del consumatore. La sostanza non è più mezzo ma è fine, non è più conoscenza dell’arte ma è arte della conoscenza. Il consumatore interagisce in profondità con la sostanza, facendo suo il mito d’illuminazione che l’accompagna. In casi favorevoli l’artista si scopre mistico e si trasforma in prete dell’arte, forsennato predicatore estetico, cosa che probabilmente già era a sua insaputa, e scrive/descrive le Porte della Percezione. In altri casi l’artista finisce per credersi demiurgo, finisce per credere dentro di sé una divina scintilla che la droga deve trasformare in un fuoco bruciante di superiorità. In lui si stampa il biblico peccato della presunzione: illuminato per meriti suoi propri o per grazia divina, si avventura in una dimensione di profonda comprensione di sé che, alla fine, non ha ritorni, non produce resoconti estetici commerciabili, si nega al dialogo, non socializza le conoscenze. L’adozione delle droghe dure spazza via miti e utopie, false coscienze e ideologie: non è il desiderio di vincere un Nobel che spinge all’eroina, né un eroinomane prenderà mai il Nobel. Per tali ragioni, l’unica avventura possibile è quella di William Borrouehs che passa la sua vita a bucarsi, perché la droga gli dà piacere, perché vuole appartenere alla “cultura della droga” (e non a quella del Monopoli, cui era destinato per nascita) e perché brucia dal desiderio di un contatto umano vero nell’inverosimile sincerità dei tossicomani. “Miserabile miracolo”, dirà Henri Michaux, deluso dai prodotti della sua illuminazione. Ma, infine, credersi demiurgo per gli effetti di una droga può essere meglio che credersi onnipotente perché si possiedono una pistola e un conto in banca: il miracolo più miserabile è quello di trovarsi bene nella realtà del lavoro capitalistico oppure di riuscire a convincere qualcuno, con sole tecniche verbali, che egli vive nella migliore delle migliori società possibili. Al mito della comunicazione dall’interno verso “gli altri”, oceanicamente, in modo totale, al mito del contatto e della comunicazione con i propri simili, si sostituisce quello del volo dentro sé stessi. Da una visione astronautica del fare arte si vira verso una concezione entronautica. E, in fondo, le panzane edificanti e le confabulazioni sugli Assoluti, finalmente cedono posto all’Io, al Sé e alla condizione umana che ciascuno di noi sperimenta, vive e conosce.

Articolo  pubblicato sul numero 8 di “Tra” (aprile 1979)


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